Chiusi nel silenzio delle loro stanze, i ragazzi hanno subito mesi di isolamento a causa della pandemia di Sars-COVID 19. Una protezione che purtroppo si è trasformata in privazione di ciò di cui, alla loro età, hanno più bisogno: il contatto.
Intervista a Renato Borgatti
• Direttore del Reparto di Neuropsichiatria Infanzia ed Adolescenza della Fondazione
• IRCCS C. Mondino di Pavia; Università degli Studi di Pavia
> mondino.it
di Beatrice Spagoni
Mancano gli abbracci. Un gesto semplice quanto fondamentale per confortare l’essere umano, soprattutto quando è giovane e in cerca di rassicurazioni, come sono gli adolescenti. Abbiamo chiesto al prof. Renato Borgatti, neuropsichiatra infantile, di raccontarci cosa è successo ai ragazzi durante questo lungo periodo di pandemia che li ha costretti ad una forzata “solitudine” e privazione di contatto.
Perché i ragazzi hanno sofferto in questi lunghi mesi di pandemia?
La limitazione sociale degli adolescenti durante il periodo di pandemia ha interrotto il loro processo evolutivo, un processo di crescita che richiede di uscire dalla propria famiglia, confrontarsi con i coetanei e ricercare figure adulte significative al di fuori della cerchia famigliare. È un processo lento e talvolta burrascoso che naturalmente porta i ragazzi e le ragazze a crescere e maturare sviluppando una propria identità. Non altrettanto si è verificato nei bambini più piccoli che, se hanno vissuto questo periodo di pandemia in modo sufficientemente sereno (senza lutti, perdita di lavoro dei genitori o altri traumi), hanno sofferto molto meno questa esperienza di isolamento sociale, proprio perché alla loro età i punti di riferimento restano essenzialmente i genitori e la cerchia dei famigliari.
Come la pandemia ha accentuato il disagio degli adolescenti?
La pandemia ha reso ancor più evidente un disagio che spesso i ragazzi, dai 12 fino anche ai 20 anni, sperimentano. Si tratta di un malessere che spesso ci capita di osservare a questa età e in questo periodo storico, accentuato dalla mancanza di strutture territoriali che possano rispondere ai loro bisogni e alle loro richieste di aiuto. Durante il primo lockdown il disagio è stato più contenuto. Si era trattato di un evento vissuto come una novità, una sorta di “vacanza anticipata”, ma, soprattutto, si trattava di una esperienza collettiva che aveva suscitato a livello popolare anche sentimenti di forte unità. La gente cantava e suonava sui balconi e i ragazzi si sentivano parte di una comunità. Con la seconda e terza ondata, invece, gli adolescenti sono stati fortemente penalizzanti. Si è perso il senso di quello che stava accadendo e i ragazzi hanno avuto la netta percezione che stavano vivendo sulla loro pelle decisioni e provvedimenti di valore strettamente economico. I genitori dovevano lavorare e, non potendosi occupare dei bambini più piccoli, per loro era stata riattivata la scuola in presenza. Gli adolescenti, al contrario, sono stati considerati indipendenti e per questo lasciati a casa in solitudine. Ci siamo illusi che la didattica a distanza potesse bastare a colmare la “distanza” dei contatti. Le scelte politiche messe in atto per contrastare la pandemia non hanno tenuto conto dei ragazzi che sono rimasti soli.
In che modo il malessere si è trasformato in patologia?
Durante la pandemia, la fascia di età degli adolescenti ha sofferto molto la mancanza di relazioni sociali e la perdita della scuola vissuta in modo attivo e partecipato, trasformando il malessere e il disagio in una vera e propria patologia. Di queste, arrivano da noi in ospedale i disturbi più gravi. Stiamo parlando di disturbi del comportamento alimentare, breakdown psicotici (ragazzi con perdita di capacità di leggere la realtà, o perdita di controllo dei pensieri), self cutting (autolesionismo), fino ad arrivare ai tentati suicidi. È mancata la scuola come sentinella (portando il genitore ad essere unico osservatore). Una sentinella che riesce ad accorgersi di comportamenti che i ragazzi magari mascherano in famiglia. È mancato anche il ruolo importante della scuola come esperienza sociale, che può far capire quanto le fatiche siano un peso comune e non solo personale. Senza il confronto è aumentato il senso di solitudine. E anche se la famiglia è l’ultimo baluardo, per gli adolescenti non basta. Servono altre figure, valori di riferimento fuori dalla famiglia, come gli educatori nello sport, ma anche la socialità dei gruppi di associazionismo.
Cosa si poteva fare per ridurre il loro disagio e la conseguente sofferenza e patologia?
Purtroppo, la neuropsichiatria infantile soffre di una annosa carenza di risorse e questo si è riflettuto sull’incapacità del territorio di far fronte in modo tempestivo alle richieste di aiuto quando non erano ancora sfociate in franca psicopatologia. Quando un ragazzo arriva a dover essere ricoverato in ospedale è già una sconfitta per le strutture sanitarie perché la neuropsichiatria dovrebbe soprattutto operare nel territorio di residenza dei ragazzi. Prima di tutto bisogna fare prevenzione, aumentando le esperienze di socialità. Aprire luoghi di incontro per favorire i momenti di socialità, di confronto; già il semplice stare insieme può consentire a molti ragazzi di non sviluppare un patologico sentimento di solitudine ed abbandono. La scuola dovrebbe essere molto più di un momento di informazione e didattica. Deve diventare un punto di aggregazione. Bisogna investire su queste cose. È un’età faticosa, di crescita, perché sono tanti i compiti evolutivi che devono essere affrontati dagli adolescenti. Le risorse dovrebbero dunque essere allocate soprattutto sul territorio, alle neuropsichiatrie del territorio, incrementando il numero dei terapisti, degli educatori e dei neuropsichiatri. Allo stesso modo, molte più risorse dovrebbero essere dedicate anche alla scuola, introducendo in modo stabile la figura dello psicologo scolastico, ad oggi troppo poco presente. In questo modo solo nei casi estremi, in percentuale minima, si renderà necessario il ricovero.
Cosa resterà nei ragazzi di questa esperienza di distacco, che prezzo hanno pagato con la pandemia?
È impossibile prevedere il futuro, soprattutto nella sofferenza psichica, dove non esiste un meccanismo chiaro di causa-effetto. Non c’è mai un’equazione lineare tra un evento e le sue conseguenze. A volte le esperienze di fatica e di sofferenza rendono più forti. È il concetto di resilienza, l’opposto della fragilità. Penso che tanti ragazzi sapranno uscire da questa esperienza più forti e motivati. Saranno degli adulti più sensibili e attenti di quello che sono stati gli adulti di oggi. Questo è il mio augurio per il futuro ma è innegabile che questa esperienza lascerà anche tanti feriti. E oggi c’è la necessità di dare loro un grande aiuto, magari potenziando le strutture pubbliche e investendo su figure di terapeuti che possano essere di supporto anche per i professori e i genitori che con gli adolescenti sono quotidianamente a stretto contatto.
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