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Estate… attenzione alla selfite!


A suon di scatti e post, da soli o in compagnia, per l’esercito dei selfie l’ossessione di ottenere tanti like e commenti può diventare un disturbo psicologico. È la “selfite”, un fenomeno sempre più diffuso, soprattutto in estate quando la presenza sui social si fa pressante.


di Stefania Antonetti


Benvenuti nell’era 2.0! L’epoca digitale in cui il palcoscenico globale è alla portata di tutti e il nostro “io” diventa protagonista. Insomma, se nella mitologia greca Narciso il bellissimo giovane si innamorava della propria immagine riflessa nell’acqua del lago, fino a cadervi e perdere la vita, oggi l’immagine artefatta di sé è quella restituita dall’identità digitale. Linfa vitale del narcisista digitale, ossia di colui che è continuamente alla ricerca di conferme esterne, spesso misurate in base al numero di “like”, commenti e condivisioni ottenuti. Una dipendenza da reazioni/commenti altrui che in alcuni casi può portare a una vera e propria ossessione con conseguenze negative.


Ma non è sempre così

“Scagli la prima pietra…chi non si è mai fatto un selfie” per condividerlo alla mercé dei social. Obiettivo: ottenere più “like” e commenti possibili. Chiaramente non c’è nulla di strano postare delle foto per condividere assieme ad altri dei bei momenti vissuti nonché attimi di vita importanti. E fin qui nulla di strano. Esiste, però, una linea sottile che divide la pratica normale di scattare selfie da quella ossessivo-compulsiva.


È la “Selfite”

Sebbene condividere momenti della nostra vita sui social può essere un modo per esprimersi e connettersi con gli altri, l’atto di postarli ossessivamente può riflettere invece dinamiche più complesse e, in alcuni casi, potrebbe essere indicativo di una condizione psicopatologica. La ricerca costante di validazione esterna può diventare una spirale che alimenta insicurezza e dipendenza da feedback (riscontri) positivi. “È importante riconoscere quando questo comportamento incide negativamente sulla propria vita – spiega Adalgisa Bisanti, psicologa - psicoterapeuta cognitivo-comportamentale - e cercare strategie e supporto per gestire la propria immagine e la propria autostima in modo più sano ed equilibrato”.


Dalla provocazione alla ricerca universitaria

Novello figlio dei tempi moderni, gli psicologi hanno clonato questo nuovo disturbo con il termine “selfite”. Una definizione entrata a far parte del vocabolario comune soltanto nel 2014 quando per descrivere l’ossessivo selfie-taking, una parodia di notizie ha suggerito all’American Psychiatric Association di considerare la classificazione di questo comportamento come una patologia. I ricercatori della Nottingham Trent University e della Thiagarajar School of Management in India decisero così di indagare per capire su basi scientifiche: “se l’azione di postare costantemente foto può diventare nociva per la psiche tanto da creare una dipendenza da social”.


Lo studio

I ricercatori non solo hanno confermato l’ipotesi che dietro la smania di scattarsi selfie ci fosse una condizione psicopatologica che affligge soprattutto i giovani (ma non solo), ma hanno realizzato anche una scala che va da 1 a 100 per misurare la gravità del disturbo, indicando tre classificazioni diverse. La scelta poi di analizzare gli abitanti dell’India è nata perché rappresenta il paese con il maggior numero di iscritti a Facebook e il paese che conta più vittime da selfie scattati in luoghi pericolosi. Difatti, oltre a minare lo stato psicologico, tale pratica può trasformarsi in qualcosa di rischioso. Anche l’Italia conta casi patologici di giovani che hanno messo a repentaglio la propria vita per un selfie. Nel febbraio 2022, a Firenze, un ventenne è morto cadendo dal tetto della sua ex scuola dove era salito di notte con un amico per scattarsi un selfie. Purtroppo, questo episodio non è l’unico.


Quando postare selfie diventa un comportamento ossessivo?

“La “selfite” non è una malattia riconosciuta ufficialmente ma un termine per descrivere l’ossessione per i selfie e la necessità di condividerli sui social. Più che una malattia è una manifestazione comportamentale, spesso legata a problemi di autostima e al desiderio di ricevere attenzione e approvazione - precisa Adalgisa Bisanti, psicologa-psicoterapeuta cognitivo-comportamentale - oggi non la si può definire una vera e propria patologia, in quanto nella classificazione dei disturbi mentali, ossia il DSM5, non si trova, ma desta preoccupazione quando il soggetto perde il controllo della situazione. Quando ossia il desiderio di postare selfie assume caratteristiche ossessive, come una necessità impellente di postare frequentemente per sentirsi validati, un’eccessiva preoccupazione per l’immagine personale o l’aspetto fisico e un investimento significativo di tempo per scattare il selfie “perfetto”. Comportamenti che possono nascondere bassa autostima, insicurezze profonde o difficoltà nel gestire le emozioni e le relazioni interpersonali.


Possibili disturbi associati alla selfie-mania

La “selfie-mania” può essere un sintomo di disturbi psicologici più profondi, riflettendo una complessa rete di questioni relative all’autostima, all’immagine corporea e alla dipendenza da internet. Disturbi come l’ansia sociale e la depressione spesso si nascondono dietro la costante ricerca di approvazione e riconoscimento attraverso i like e i commenti sui social media - spiega Brisanti -. Inoltre, può essere associata a disturbi della personalità, come il disturbo narcisistico di personalità, dove l’individuo può avere un bisogno eccessivo di ammirazione e una mancanza di empatia per gli altri. Disturbi dell’immagine corporea, come la dismorfofobia, possono essere aggravati dalla pressione di presentare una versione idealizzata di sé stessi online, portando a un ciclo vizioso di confronto e insoddisfazione. La dipendenza da internet e dai social media è un’altra area di preoccupazione, con individui che possono trascorrere ore a curare e a pubblicare selfie, trascurando altre aree della loro vita. Nell’affrontare il fenomeno della “selfite” - conclude la psicologa - uno psicoterapeuta può adottare un approccio terapeutico multiplo, mirando a comprendere e trattare le radici psicologiche sottostanti di questo comportamento”.

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